Mozia: il riso sardonico della maschera ghignante

di Valentina Pagano
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Mozia: la maschera ghignanteNell’isoletta di Mozia, colonia fenicia dell’VIII sec. a.C., a poco più di cento metri dalla necropoli arcaica si trova il cosiddetto tophet (in aramaico “luogo di arsione”), cioè il santuario dove venivano sacrificati alle divinità Baal Hammon e Astarte i primogeniti maschi ancora in fasce, le cui ceneri erano poi conservate in vasi di terracotta. Questo santuario, oltre a steli, vasi, statuine, ci ha regalato, oltre all’ormai famosa “Maschera ghignante” (VI sec. a.C.), alcune protomi fittili. Per protome intendiamo quella raffigurazione plastica che copre oltre al volto anche una parte del busto ed è di solito, a differenza della maschera, priva di aperture in corrispondenza degli occhi e della bocca.
La maschera rinvenuta a Mozia appartiene al tipo grottesco, la cui peculiarità sono i lineamenti del volto distorti e modificati. Nelle colonie fenicie fondate nel Mediterraneo occidentale esemplari appartenenti a questa tipologia sono alquanto frequenti; ne sono stati ritrovati a S. Sperate (Cagliari), a Tharros, a Cartagine e ad Ibiza (A. Ciasca, I Fenici, Bompiani).
L’affinità della maschera di Mozia con quelle cartaginesi, dovuta all’uso della stessa tecnica per la realizzazione della bocca con fori agli angoli e delle orecchie forate, testimonia l’esistenza di precisi rapporti con la città di Cartagine. Alcuni studiosi vedono nel volto contratto della maschera ghignante il cosiddetto sorriso sardonico, quella particolare espressione “che doveva dimostrare gioia nel momento in cui si offriva alla divinità la primizia - il figlio maschio primogenito - ma che nello stesso tempo esprimeva immenso dolore” (A.Vita, I Fenici alla luce degli ultimi ritrovamenti di Mozia e di Marsala, Edizioni Campo).
Quasi tutti concordano, però, nell’attribuire alla maschera per la sua aggressività e il suo aspetto demoniaco una funzione apotropaica (dal greco apotrépo, allontano; apotrópaios, che allontana i mali), termine che gli antichi attribuivano ad oggetti deformi e grotteschi, in grado, cioè, di distogliere lo sguardo nemico.
L’aggettivo italiano fascinatore deriva dal latino fascinum che indica sia il malocchio sia il fallo. Presso i Latini, infatti, venivano organizzate delle feste in determinati periodi significativi per il mondo dell’agricoltura, quali quello della semina e della mietitura, in cui era esaltata la forza generatrice, al fine di scacciare quei mali che avrebbero potuto minacciare la fecondità della donna e della terra. Il tofet di MoziaVirgilio, nelle Georgiche, descrive le terribili maschere fatte di fango o di corteccia di legno intagliata, indossate in queste occasioni; anch’esse erano ovviamente apotropaiche. Tale funzione la ritroviamo in genere nelle maschere mostruose costruite per spaventare e, quindi, per allontanare i nemici di guerra o i demoni.
Probabilmente era questo lo scopo della maschera di Mozia: proteggere la vittima da altri malefici demoni. Fortemente connesse al mondo degli spiriti erano le maschere funerarie, il cui compito poteva essere, come per le romane imagines maiorum, quello di rappresentare il morto come antenato divino. L’uso della maschera nel teatro antico, evocatore delle gesta di eroi, dei e demoni, ha origine proprio dal culto degli eroi, morti divinizzati. Non ci stupisce che Orazio nelle Satire adoperi la parola larva che in latino indica, oltre alla maschera, lo spirito del defunto. Tali due accezioni erano contenute pure nel termine longobardo maska, da cui deriva il nostro “maschera”. In latino, però, usualmente maschera si dice “persona”, parola presa dal greco pr’swpon che equivale a volto, maschera e personaggio, poiché ogni personaggio aveva la sua maschera. Da ciò deriva la nostra nozione di “persona”, “personalità”, cioè il ruolo da noi espresso nella vita, la propria identità e il modo in cui ci rapportiamo agli altri; oppure il modo in cui ci vedono gli altri, il ruolo e l’identità che ci attribuiscono: Pirandello preferirebbe dire così.




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