La favola di Cerere

di Simone Loria
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Ratto di Proserpina del BerniniCome disse A. Schopenhauer, “bisognerebbe essere dimenticati da tutti gli dei per poter pensare che il mondo abbia una sua valenza ontologica, altra dal suo essere rappresentazione”, e per credere vere le fantasiose e mitiche storie di dei ed eroi, vecchie almeno quanto la nostra capacità razionale.
Certo è comunque che, nei pressi del lago Pergusa (Enna), una dolce fanciulla, di nome Persefone, figlia della bionda dea Cerere, errava a piedi nudi per il consueto prato insieme con le compagne. E che incantevole paesaggio si trovava di fronte! Nel fondo d’una valle ombrosa v’era un luogo bagnato dai copiosi spruzzi d’una cascata. Eran lì sotto tanti colori quanti ne ha la natura, e la terra splendeva variopinta di fiori. La fanciulla e le ragazze che erano con lei non poterono fare a meno di riempire di fiori il loro grembo: si colsero più rose, pur tant’altri fiori. A poco a poco le compagne si allontanarono per coglierne degli altri, ma, sventuratamente, nessuna di loro seguì la padrona.
D’improvviso si spalancò la terra e ne uscì fuori Ade, che prese Persefone e, di forza, la trascinò nel suo regno con neri cavalli. Le compagne, accortesi della scomparsa di lei, cominciarono a gridare il suo nome e ad esse fece eco anche la madre giunta pur essa sul luogo. Cerere non frenava i gemiti e si aggirava furente per quelle terre ma, non avendola trovata, continuò la sua disperata corsa per tutta la Sicilia. Attraversò Lentini, Ortigia, Megara, Didimo, Imera, Agrigento, Tauromenio, Mela, Camarina, Tapso e anche là dov’è esposta Erice ai dolci venti di zefiro (e lì le cadde la falce, proprio ai piedi del monte, donde l’origine di Trapani e della sua caratteristica forma). Gridava “Persefone” e “figlia mia”, ma alternamente morirono l’uno e l’altro nome. Fattasi sera, accese, sull’igneo respiro dell’Etna, due pini: nulla da fare, nessuna traccia della ragazza.
Tristemente afflitta, sedeva ormai su di un gelido scoglio e rimase immobile per moltissimi giorni. “Madre” - si sentì chiamare da una bimba, che era sulla via del ritorno a casa con il vecchio padre e un bambinello infermo che giaceva nella culla - “che fai in questi luoghi tutta sola!”. Anche il vecchio le rivolse l’attenzione; poi, saputo dello spiacevole accaduto e viste le lacrime che le scendevano giù calde, con le giuste parole la convinse a seguirli nella loro umile capanna. Arrivarono, la dea oltrepassò la soglia, le bastò un solo bacio a far sparire il pallore e a far tornare le forze a quel fanciullo senza più speranza di salvezza. Rotto il digiuno solo con una foglia di papavero, lasciò quella dimora e riprese il suo angoscioso girovagare. Non c’è luogo ch’ella non abbia percorso. Interrogò persino il sole e le stelle e così venne a sapere che Persefone era ormai sposa del fratello di Giove. A lungo si dolse tra sé, ma poi decise di recarsi sull’Olimpo per implorare il padre degli dei che le fosse resa giustizia, disposta a perdonare l’oltraggio patito, purché le fosse restituita la figlia da parte di Ade: cosa che Giove concesse, a patto che Persefone si fosse mantenuta fino ad allora digiuna: soltanto a tale condizione sarebbe stato rotto il nodo nuziale.
Fu inviato quindi Mercurio negli Inferi, ma il messaggero divino tornò purtroppo con tristi notizie: Persefone, inconsapevole del divieto, aveva già interrotto il digiuno mangiando tre chicchi di melagrana.
Malgrado ciò Giove, commosso per la sconsolata disperazione della dea, provò a rasserenarla, promettendo che Persefone avrebbe trascorso sei mesi con la madre, ma i restanti sei nella dimora di Ade.
Cerere in tal modo, accettando il verdetto, si rasserenò e, nei campi che erano rimasti nudi ed incolti, fu di nuovo larga messe.




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