Il mito di Enea da Virgilio a Dante

di Antonino Tobia
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Enea porta sulle spalle il padre Anchise - libro dell' Eneide nella traduzione di Francesco VivonaNel suo ampio commento a Virgilio, il grammatico Servio attesta che il poeta mantovano si accinse alla composizione del suo poema epico solo nel 29 a.C., quando già la pubblicazione delle Bucoliche e delle Georgiche lo avevano consacrato alla fama perenne presso i posteri. Non è difficile supporre, tuttavia, che il disegno di un poema epico andasse maturando da anni nell'animo di Virgilio, se già nelle Georgiche è possibile riscontrare qua e là echi di canto epico.
Si ascolti la forza tonale e il timbro grave dei seguenti versi, fra i più celebri dell'opera georgica:
«Haec genus acre virum, Marsos pubemque Sabellam / adsuetumque malo Ligurem Volscosque verutos, / extulit, haec Decios, Marios magnosque Camillos, / Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, / qui nunc extremis Asiae iam victor in oris / imbellem avertis Romanis arcibus Indum». (Georgiche, II, vv. 167-172)
Celebrazione appassionata dell'Italia che il poeta conclude con i famosi esametri, vibranti di caldi sensi patriottici, destinati a diventare nei secoli un punto di riferimento per quanti hanno voluto, dal Petrarca al Leopardi, innalzare un'ode all'Italia:
«Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus / magna virum: tibi res antiquae laudis et artis / ingredior sanctos ausus recludere fontis / Ascraeumque cano Romana per oppida carmen». (Georgiche, II, vv. 173-176)
Con raffinata sensibilità, l'archeologo poeta Amedeo Maiuri amava immaginare nelle sue Passeggiate campane che il cuore del poeta avesse palpitato fortemente leggendo i versi di lode all'Italia in presenza di Ottaviano e che gli fosse poi mancata la voce scandendo gli esametri del saluto alla Saturnia tellus, nel silenzio della campagna atellana.
E ancora, con alto senso etico, percorso da una severa solennità epica, la vita agreste è cantata come il fondamento storico della grandezza di Roma:
«Hanc olim veteres vitam coluere Sabini, / hanc Remus et frater; sic fortis Etruria crevit, / scilicet et rerum facta est pulcherrima Roma / septemque una sibi muro circumdedit arces» (Georgiche, II, vv. 532-535)
Ma le Georgiche erano soprattutto il canto della terra, della laboriosità umana e dell'anelito alla pace, un canto che un poema epico avrebbe potuto trasformare in peana propiziatorio, solo che dal disordine delle guerre civili si fosse avanzato l'uomo fatale, colui che avrebbe restituito al mondo quella placida pax che senza speranza Lucrezio aveva invocato per quel suo mondo dimentico di Dio e dimenticato dalla divinità.
Virgilio non accetta l'etica epicurea, respinge ogni forma di casualità, crede, invece, che una forza misteriosa operi nella storia dell'umanità, una forza di amore e di pace, destinata ad affermarsi contro la belluina violenza delle armi, una forza provvidenziale che agisce nel corso degli eventi, attuando i suoi disegni imperscrutabili.
E nel disegno della Fortuna, tante volte presente nelle invocazioni dei personaggi dell'Eneide, Ottaviano occupa un posto chiave, rappresenta un momento di centralità di tutta la storia della res publica romana e dell'umanità intera. La celebrazione dell'opera di Ottaviano, che con la vittoria di Azio era riuscito a stabilire la pace in tutte le regioni dell'Impero, al di là di ogni accezione encomiastica che vi si possa leggere nei confronti del singolare individuo, mirava ad esaltare l'opera di quella forza provvidenziale che aveva affidato già ad Enea l'ordito di una maestosa tela che Ottaviano Augusto avrebbe dovuto rendere perfetta. Enea-Augusto diventano nella fantasia virgiliana gli estremi di un lungo processo storico che, mentre riscatta il primo da tutte le interpretazioni leggendarie pervenute fino a quel momento, colloca il secondo in una dimensione trascendentale, dove la storia confina col mito ed ogni impresa è destinata a trasformarsi in epopea.
Attraverso il mito di Enea, Virgilio tesse la storia della civiltà mediterranea fino all'avvento del Cristianesimo e da lui muoverà Dante per rivisitare l'intera storia dell'umanità alla luce della Rivelazione cristiana, secondo la medesima concezione provvidenzialistica che aveva alimentato l'anima, la fantasia e l'arte virgiliana.
Non è casuale che Dante apra il canto VI del Paradiso con il ricordo del viaggio di Enea da oriente ad occidente ed ami ritrarre "l'antico che Lavinia tolse" come il primo "baiuolo" dell'aquila imperiale. Dante si pone in perfetta sintonia spirituale con Enea, si sente anch'egli uomo della Provvidenza, missionario della fede, protagonista della storia morale dell'umanità. Tuttavia, la missione di Enea appare più solenne. L'eroe troiano sa fin dall'inizio di essere predestinato: "Poscor Olimpo", si ripete nei momenti di sconforto; sa di seguire un destino tracciato, data fata secutus; sa che per questo è "il meno libero dei viventi" e che l'unico suo dovere è fortiter pati, ma anche agere.
Non c'è da meravigliarsi se il Medioevo, accogliendo i suggerimenti dell'opera di Fulgenzio De continentia vergiliana, volle accostarsi all'Eneide in chiave allegorica e leggere l'opera secondo i principi dell'etica cristiana.
In consonanza con quella profonda religiosità che aveva ispirato i libri delle Georgiche, Virgilio prende le distanze dalle arcaiche tradizioni italiche che, a partire dall'VIII secolo a.C., avevano recepito la leggenda di Enea. Con il poeta mantovano il viaggio dell'eroe troiano esce dalla sfera del mythos per acquistare un segno di rilievo in quella del logos, cioè nella sfera del razionale e della storia, con un valore semantico ben definito dallo stesso sistema di relazioni che Virgilio riesce a creare.



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