I 2500 anni dell'Efèbo di Selinunte

di Rosalba Scalabrino
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Efebo di SelinunteNascosto in una cesta colma di fave e trasportato sul dorso di un mulo, l’Efèbo di Selinunte lascia la sua terra d’origine dopo millenni per iniziare un movimentato cammino segnato dal trafugamento e dal successivo recupero. È in questi termini che Giuseppe Martino e Giovanni Miceli raccontano la storia del celebre giovinetto bronzeo, datato tra il 480 e il 460 a.C. ed attualmente conservato al Museo Civico di Castelvetrano.
La statua, alta circa 85 cm, venne casualmente rinvenuta nel 1882 da un pastorello di appena nove anni in una contrada del territorio selinuntino denominata Ponte Galera. Con l’aiuto di altri contadini che lavoravano in quel fondo, l’Efèbo, rotto in più parti, veniva alla luce. Non era la prima volta che i contadini della zona di imbattevano in oggetti antichi; del resto sotto i loro piedi si trovava la necropoli del “Bagliazzo”, dove le tombe dei Selinuntini erano arricchite di preziosi corredi funerari. Non a caso, infatti, i familiari del pastorello ritornavano sul posto del rinvenimento, nella speranza di trovare qualche oggetto d’oro, ma quanto venne fuori dallo scavo erano solo frammenti di un sarcofago d’argilla.
Considerate le dimensioni della statua, si suole escludere che essa facesse parte di un corredo funerario, ma si ritiene che i padroni l’avessero nascosta in una tomba in periodo di guerra per evitarne la confisca da parte degli assedianti.
Venduta al Comune di Castelvetrano per 50.000 lire, la statua rimase chiusa in un magazzino per 46 anni, sottratta al dimenticatoio nel 1928 per interessamento del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile. Affidato al gabinetto di restauro del Museo di Siracusa, che era sotto la direzione di Paolo Orsi, il bronzo fu finalmente restaurato, quindi minuziosamente descritto e datato da Pirro Marconi.
Esposto nell’anticamera del gabinetto del sindaco di Castelvetrano, la statua vi rimase per 34 anni, assurgendo a simbolo della città. Enorme fu l’eco della notizia del trafugamento avvenuto nella notte fra il 30 e il 31 ottobre 1962: in pochi minuti faceva il giro del paese la voce per cui “lu pupu” di Ponte Galera era sparito e una folla di curiosi si accalcava sotto le finestre del Palazzo Pignatelli.
Ben presto i malviventi, che si erano impossessati del bronzo, si resero conto di quanto rischioso fosse il trasporto all’estero del bottino; nessuno dei grandi mercati internazionali volle sobbarcarsi il rischio dell’operazione.
Si giunse così alle prime richieste di riscatto rivolte prima allo Stato italiano, poi al sindaco di Castelvetrano per una cifra che andava dai 25 ai 30 milioni. Fallite svariate trattative, il bronzo fu ritrovato il 13 marzo 1968 a Foligno dopo un drammatico scontro armato tra la gang di ladri e le forze dell’ordine. Decisivi per tale recupero furono le indagini dell’Interpol e soprattutto l’intervento del ministro plenipotenziario Rodolfo Siviero che assunse l’identità di antiquario per trarre in inganno la banda di malviventi.
Affidata all’Istituto Centrale del Restauro di Roma, la statua venne riportata nelle migliori condizioni possibili. Tra le osservazioni fatte dall’Istituto romano spicca quella secondo cui già all’epoca della fusione erano avvenuti alcuni guasti subito riparati dall’artigiano selinuntino tramite fasce di metallo aggiunte all’altezza del torace e delle gambe.
Per la cronologia e lo stile del bronzo ancora oggi si ricorre al giudizio di Pirro Marconi espresso nella sua pubblicazione sull’Efèbo del 1928: l’adolescente nudo, ritto, stante sulla gamba sinistra e con la destra portata in avanti, si presenta esile, dallo scarso sviluppo muscolare, dunque lontano dall’ideale atletico della plastica greca. La figura è quasi completa, mancano solo la metà anteriore del piede destro e le dita della mano destra tranne il pollice.
Se già Pirro Marconi notava nella statua l’assenza dei canoni stilistici classici per una certa slegatura tra le parti, considerandola pertanto un prodotto della scuola plastica selinuntina, non è mancato anche successivamente chi ha sottolineato le coincidenze formali e stilistiche con le metope del tempio E, dai volti ovali e dai corpi esili e asciutti.
Dunque l’Efèbo di Selinunte, che pure mostra elementi attici nella visione del corpo e nella ponderazione, è da ritenersi con ogni probabilità un prodotto dell’arte locale. Ipotetica sembra peraltro una possibile identificazione con l’immagine umanizzata del fiume Selinus quale appare nella monetazione del V secolo.
Così “lu pupu” di Ponte Galera, celato durante un momento di pericolo in un sarcofago d’argilla e mai più ripreso dal padrone anche dopo la fine dell’assedio punico, è sfuggito alle mani dei predatori cartaginesi. Tornato alla luce dopo millenni grazie a un vomere di legno, ad alcuni animali e alla curiosità di un pastore, dopo il furto e il recupero, i danni e le riparazioni, per nostra fortuna rimane ancora oggi a testimoniare l’arte e il gusto della Selinunte di 2500 anni fa.




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