Come mangiavano e bevevano i Romani

di Maurizio Vento
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Il banchetto nell' Antica RomaIl prestigioso ruolo dei Romani, così come la loro conquista progressiva dei territori circostanti, si basava nella fase iniziale della loro storia su un elemento connaturato alla loro stessa indole: la virtus nel duplice significato di valore e coraggio, di dirittura morale e di frugalità. È specialmente questo secondo aspetto che ne caratterizzò, nei primi secoli dopo la fondazione di Roma (753 a. C.), le sobrie abitudini alimentari.
La loro origine dai Troiani, secondo la tradizione ripresa da Virgilio nell’Eneide, li induceva ad accontentarsi di poco per il nutrimento. Sulle navi di Enea, durante i sette anni di periglioso girovagare per il Mediterraneo, era il farro la materia prima con cui i profughi dalla città di Priamo placavano i morsi della fame. Dalla sua macinazione e conseguente cottura si ricavava una specie di polenta (puls), che si accompagnava al pesce e alla poca carne di cui i naviganti potevano far provvista durante i brevi approdi e le forzate soste nei porti e negli empori.
A Roma, nell’età regia e nell’avvio della fase repubblicana, soltanto due erano i pasti: il prandium e la coena. Talvolta erano preceduti dalla prima colazione, ientaculum, di mattina, a base di pane condito con vino e sale, oppure pane e miele, olive, latte, uva secca. Il sale lo fornivano i mercanti Fenici, che dagli empori della Sicilia trasportavano nel Lazio il bianco prodotto delle saline di Drepano (odierna Trapani).
La seconda colazione, il prandium, aveva luogo a mezzogiorno con cibi di facile digeribilità, caldi o freddi, come pesce, legumi, uova, frutta, accompagnati dal mulsum, bevanda di vino miscelato a miele; il pasto principale consisteva nella coena, con antipasto di cibi adatti a stimolare l’appetito, come olive, crostacei, tartufi, salse piccanti (liquamen o garum), poltiglia il secondo di interiora di pesce esposta al sole per favorirne la fermentazione (un intruglio nauseabondo, a dire di molti, ma simile alla nostra pasta di acciughe a parere di altri); e ancora carne di agnello, di uccelli, di bue o di maiale. Sorseggiavano vini robusti talvolta miscelati ad acqua, secondo la regola fissata di volta in volta da un commensale, designato all’inizio del convito come re del banchetto (rex convivii). Ma Orazio, nella sesta satira del secondo libro, evocava con nostalgico rimpianto le improvvisate cene con gli amici nella sua rustica villetta di campagna, dove egli offriva ai commensali soltanto fave e fagioli conditi con lardo, e ciascun convitato, libero da pazze leggi, poteva bere quanto e quel che gli pareva, chi il vino puro, chi annacquato, mentre i temi della conversazione vertevano non sulla quantità di denaro posseduto da altri o sulle gambe di ballerini, ma su cose a cui ogni tanto bisogna pur pensare ed ignorarle è male: se sia la ricchezza a rendere felici gli uomini oppure la virtù, che cosa ci spinga a cercare l’amicizia, quale sia l’essenza del male e cosa si debba intendere per sommo bene.
Le ricette e la cucina antica a Roma : riproduzione di una bottega di un pollivendolo (da bassorilievo marmoreo)I vini più pregiati erano il Caecubum, il Massicum, il Falernum, il Calenum, provenienti per lo più dalla Campania. Dall’estero giungevano, fra gli altri, i vini di Chio, di Sicione, di Cipro. Si consumavano, inoltre, vinum rosatum (vino di rose) e vinum violatum (vino di viole). Era d’uso bere alla salute di un commensale tanti bicchieri quante erano le lettere del suo nome. Il banchetto nel suo complesso aveva termine con una libagione ai Lari, di cui venivano esposte le venerate statuette.
Non mancavano in tavola i cibi vegetali come la diffusissima lactuca (insalata verde), i legumi (lenticchie, piselli, ceci) e, nelle occasioni speciali, le carni di lepre, di coniglio, di pavone, di vari uccelli, di capretto e d’oca con l’eccellente fegato. In apposite piscinae, per le famiglie dei patrizi, nuotavano le triglie, le murene, gli storioni, da pescare e da cuocere al momento giusto. Mele e datteri la frutta più ricercata; il dessert era composto di dulcia domestica (pasticcini fatti in casa), dactyli farsiles (datteri farciti), dulcia simulae (paste di semolino) e buccellae silinginae (bocconcini di segala). È noto a tutti che, in assenza dello zucchero, allora sconosciuto in occidente, si adoperava ovunque come dolcificante il miele prodotto dalle api, cui Virgilio dedicò non a caso l’intero IV libro delle Georgiche. L’olio di oliva, infine, dominava sulle mense.
Dopo aver mangiato, i convitati rimanevano di frequente seduti; quest’ultima parte del convito era detta comissatio, nome riservato peraltro anche ai banchetti o alle gozzoviglie fuori orario. Nei primi secoli di Roma i pasti erano consumati in piedi; successivamente subentrò, nella sala da pranzo (triclinium), l’uso di un tavolo, ovale o rettangolare con attorno i lecti tricliniares, specie di ampi sgabelli a forma di divano che permettevano ai commensali di consumare pasti stando comodamente sdraiati alla maniera asiatica. Se c’erano donne, anch’esse si sdraiavano in perfetta commistione con i propri vicini e la generale baldoria si protraeva in piena allegria fino a notte inoltrata.
Era la padrona di casa, in genere, ad allestire le vivande con l’aiuto delle schiave; in seguito, subentrarono i coqui (cuochi), che avevano alle loro indipendenze come aiutanti i culinarii (addetti alla cucina), i pistores (pasticcieri), i fornacarii (applicati ai fornelli). I cibi in genere erano portati a tavola tutti in una volta dentro un grande vassoio a comparti (ferculum). Non c’erano tovaglie a coprire la tavola; per asciugarsi le dita, che si immergevano in piccole brocche d’acqua, ciascuno portava con sé da casa una salvietta personale (mappa). Il vasellame era di coccio nelle case dei poveri; d’argento in quelle dei ricchi; le coppe (pocula), ornate di fregi, erano d’oro o di cristallo o di una tipica pietra opaca (murrina).
Si ha notizia di banchetti di una sontuosità davvero straordinaria come quello che ebbe luogo nella lussuosa dimora del ricco Trimalchione, banchetto dettagliatamente descritto da Petronio Arbitro nel suo romanzo Satyricon (primo secolo dopo Cristo), alla cui peraltro piacevole lettura rinviamo chi abbia voglia di approfondire il gustoso tema della cucina romana di epoca imperiale.



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